La storia delle cellule staminali inizia a metà dell’Ottocento quando il biologo tedesco Ernst Haeckel usa per la prima volta nella letteratura scientifica questo termine (“stamzell” in tedesco). In quegli anni però, le cellule staminali erano considerate come l’antenato unicellulare di tutti gli organismi. Questo concetto, seppur distante alle cellule staminali come le conosciamo noi, viene anche ricalcato da un medico italiano, Giulio Bizzozero, che studiando i tessuti del corpo umano li classifica in tre grandi gruppi: labili (es. midollo osseo), stabili (es. fegato), perenni (es. tessuto nervoso). Descrive i primi come sotto costantemente processo di rigenerazione al fine di conservarne immutate la costituzione e le proprietà, mentre i tessuti stabili erano considerati rinnovabili solo a seguito di un danno. La categoria finale dei perenni invece avrebbe dovuto comprendere quei tessuti che non sono in grado di rinnovarsi. Ad oggi sappiamo che questa categorizzazione è ben distante dalla realtà.
Successivamente, altri importanti scienziati iniziarono a usare il termine cellula staminale per riferirsi a singole cellule capostipiti di una discendenza cellulare, come per esempio le cellule progenitrici del sangue. Questa idea rimane non dimostrata fino al 1963, quando Ernest McCulloch e James Till dimostrarono la presenza di cellule progenitrici capaci di rinnovarsi nel midollo osseo di topo. In particolare coltivarono la blastocisti (cioè l’insieme di cellule che si ottiene dopo la fecondazione) di topo ottenendo cellule staminali embrionali pluripotenti.

